Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi


 

incontro

Per l’ennesima volta il primo ministro israeliano Nathanyau si è incontrato con il nuovo presidente americano di turno, dopo Clinton e Obama è la volta di Trump. I presidenti americani passano ma Bibi continua inossidabile a mantenere le redini dello stato israeliano. Con i suoi 22 anni consumati fino a oggi come presidente del Consiglio è il più longevo in assoluto fra i capi di stato d’Israele, avendo superato di molto il mitico primo ministro David Ben Gurion.

Il vertice fra i due leaders è stato osservato e analizzato fin nei minimi dettagli dai diversi osservatori politici del paese, cercando di capire attraverso le minime sfumature delle dichiarazioni prima, durante e dopo la conferenza stampa, in che direzione stia spirando il vento del nuovo corso. Analisi del genere risultano sempre molto ostiche e aleatorie, a maggior ragione se uno dei lati dell’equazione da risolvere è un’incognita ancora irrisolta, una scheggia impazzita di nome Donald Trump. Cerchiamo comunque, con i pochi dati in nostro possesso e quel poco di buon senso che ancora pare esistere nell’area medio orientale, di descrivere un possibile scenario almeno per il brevissimo termine.

La frase più importante delle dichiarazioni rilasciate da Trump nel corso della conferenza stampa che ha preceduto i dialoghi fra i due leader è il sunto del Trump pensiero riguardo al conflito israelo-palestinese. “Non importa se alla fine la possibile soluzione per arrivare ad un accordo comporti la creazione di un unico stato o di due entità differente” ha affermato il 45simo presidente USA “l’importante è che si arrivi ad un accordo”.Vale a dire che per il momento il massimo leader del mondo democratico si tira fuori dal guazzabuglio medio orientale affaciandosi alla finestra per osservare di tanto in tanto cosa combinano quei discolacci di Bibi e Abu Mazen.

A sentirlo parlare in questi termini la sensazione prevalente è che Trump non sia affatto a conoscenza della complessità della situazione, ignori totalmente i confini israeliani antecedenti la guerra dei sei giorni e soprattutto non abbia, almeno per il momento, una grande motivazione per approfondire l’argomento.

La destra israeliana, inebriata dalla favorevole congiuntura politica creatasi con l’avvento dell’era Trump. non pone limiti ai suoi progetti e alle sue ambizioni. Il tema all’ordine del giorno su tutti i media nazionali è quello di annettere se non tutta la Cisgiordania, almeno il suo 60%, l’attuale zona C secondo gli accordi di Oslo. Quali sarebbero i diritti civili della popolazione palestinese inglobata da questa auspicata soluzione è un mistero, di certo una possibilità del genere non può che allargare ancora di più il baratro già esistente, aumentando in più la popolazione palestinese all’interno dei confini nazionali ebraici.

Non è un caso che il Presidente dello stato ebraico Reuven Riblin, proveniente dalle file del Likud, il partito di Nethanyau, abbia messo in guardia i promotori di una soluzione del genere dal pericolo demografico che una simile proposta contiene al suo interno. La stragrande maggioranza degli israeliani è perfettamente consapevole che una strada del genere non può che condurre ad uno stato segregazionista. Un sondaggio svolto da Yehuda Ben Meir, direttore dell’istituto nazionale di studi sulla sicurezza fra la popolazione israeliana il 2 marzo di quest’anno rivela che il 49% è disposto ad un accordo che comprenda la creazione di due stati separati, il 25% si oppone ed il restante 26% non ha ancora una precisa posizione al proposito.

E’ un mio parere che la destra israeliana stia cantando troppo presto vittoria, Trump continua ad essere un’incognita per il momento indecifrabile. Anche il suo così tanto sbandierato progetto di trasferire l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme è passato in momento in secondo piano. Persino un personaggio impulsivo e a volte sprovveduto come l’attuale presidente statunitense può capire quali nefaste conseguenze possa comportare un passo del genere, e nessun leader di non importa quale paese non può ignorare la reazione più o meno violenta di oltre un miliardo di musulmani, per i quali Gerusalemme rappresenta la terza città santa dell’Islam. Una cosa è certa: Trump continuerà la tradizione di tutti i suoi precedessori, non importa se repubblicani o democratici, privilegiare prima di tutto gli interessi americani a discapito di tutto il resto, alleati compresi.

La patata bollente di quale strada intraprendere in questo momento di congiuntura favorevole agli occhi della maggioranza del governo israeliano è nelle mani di Bibi. E’ giunto il momento delle decisioni, una cosa che Nethanyau odia. Bibi preferirebbe di gran lunga continuare a mettere l’accento sui proficui rapporti più o meno palesi che Israele intrattiene con i paesi Sunniti moderati della zona; Egitto, Giordania, Arabia Saudita, Emirati del Golfo. Anche il problema iraniano è un tema caro al leader israeliano, Teheran è senz’altro un problema da non sottovalutare, ma i suoi veri problemi si trovano in Israele dove il primo ministro israeliano sta combattento il suo futuro politico su due fronti.

Al di là delle continue lotte che lo impegnano sul campo politico dove ormai è considerato schierato su posizioni quasi di sinistra dal suo stesso partito, in più il premier israeliano è alle prese con diverse indagini in corso dove viene accusato di corruzione, appropriazione indebita e abuso di fiducia. La magistratura israeliana ha già dimostrato più di una volta di non guardare in faccia a nessuno visto che Ehud Olmert, precedessore di Nathanyau sta scontando una pena di due anni di carcere per reati simili.

Fino ad oggi Bibi ha dimostrato di essere sempre riuscito vittorioso da situazioni dove lo si dava per spacciato, è una delle sue doti particolari che lo rendono così longevo dal punto di vista politico. Ma come ho scritto poco fa le scuse usate dal primo ministro israeliano sono ormai prossime all’esaurimento e una decisione sul futuro dei territori occupati dopo la guerra dei sei giorni è quasi sicuramente inevitabile. Se veramente messo alle strette è probabile che Nethanyau indica nuove elezioni con il pretesto di esigere una volontà inequivocabile dell’elettorato israeliano prima di prendere una decisione di portata storica per lo stato ebraico. Anche l’indizione di un referendum potrebbe essere una possibile soluzione.

Per il momento, come nella celebre canzone di Battisti, Bibi vorrebbe decidere ma non può, non perchè non vuole ma perchè ha bisogno di qualcun altro che decida per lui.

 

 

Un pensiero su “Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi

  1. Alla luce degli ultimi sviluppi mi sembra che la soluzione dei due Stati, ammesso che qualcuno in Israele ci abbia mai veramente creduto, ormai sia tramontata per sempre. Una curiosità: ma Olmert sta veramente scontando 2 anni di prigione o è agli arresti domiciliari o, meglio ancora, è stato affidato a Berlusconiani e Previtiani “servizi sociali”?

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