“Questa è la storia di come un Baggins ebbe un’avventura e si trovò a fare e dire cose del tutto imprevedibili” (J.R.R. Tolkien, Lo Hobbit)
Israele è un paese relativamente piccolo, grande quanto la Lombardia, e giovane (fondato nel 1948). Ma è incredibile la quantità di storie e curiosità che si riesce a trovare nascoste accuratamente fra le pieghe dell’attualità quotidiana. Come tanti dei racconti di cui scrivo di volta in volta, anche questo ha del surreale, anzi del fiabesco, ed è naturale che sia così visto che oggi ci occuperemo di Hobbit.
Siamo agli inizi degli anni ’70, nella penisola del Sinai si sta combattendo una guerra ormai dimenticata, la “guerra di logoramento” fra egiziani e israeliani. Una guerra fatta di continui bombardamenti, azioni di commando e scaramucce militari che non fanno che produrre un continuo dissanguamento di vittime da entrambe le parti.
In questo contesto si ritrovano nella famigerata prigione di Abbassia, 10 prigionieri di guerra israeliani, fra di loro 4 piloti. Il gruppetto cerca di organizzare un programma giornaliero per alleviare il più possibile le dure condizioni che la prigionia comporta. Stiamo parlando di interrogatori, torture, notizie frammentarie da parte di familiari e amici. Per mitigare la situazione e alzare il morale l’ordine del giorno prevede ginnastica, corsi a livello universitario, tornei di bridge ma soprattutto libri, molti, moltissimi libri. Quasi tutti in inglese. Durante i tre anni del periodo di prigionia ci fu chi riuscì a leggerne 304, qualcosa come un libro ogni 3-4 giorni!
E’ uno di questi libri “The Hobbit” di J.R.R. Tolkien divenne uno dei più riusciti tentativi di evasione dalla realtà quotidiana. In poco più di quattro mesi, grazie soprattutto al gruppo dei piloti, il libro venne tradotto in ebraico. L’impresa è da considerarsi ancora più eccezionale se si tiene conto che non si trattava di professionisti, e che molti dei termini e dei vocaboli del libro non esistevano, nel vero e proprio senso letterale, in ebraico. La traduzione si rivelò uno dei migliori modi per “evadere”, se non altro con la mente, dalla prigionia egiziana. Non dovendo rendere conto a nessuna casa editrice la trascrizione del testo in ebraico divenne quasi un divertimento, certamente un diversivo che acuiva le facoltà intellettuali di chi si impegnava nel compito presosi.
Ma in una cella di 6 metri per 6 dove devono convivere dieci personalità diverse, formare un gruppetto a parte può rivelarsi controproducente, c’è troppa intimità e troppa complicità, e questo può portare a tensioni indesiderabili. Fu questo il motivo che il gruppo dei traduttori decise di fermarsi e di non continuare con la traduzione del “Signore degli anelli”, nonostante fossero in possesso di tutti e tre i volumi. “Pensavamo di tradurlo nella prossima prigionia”, fu la risposta di Rami Herpaz, uno dei piloti traduttori.
Il periodo di prigionia terminò dopo la guerra del Kippur, e quello che doveva essere in definitiva uno svago per riempire le lunghe e monotone ore da trascorrere in cella divenne un caso letterario tanto da essere pubblicato e raggiungere un certo successo. Di traduzioni del libro di Tolkien ne esistono tre versioni, ma è inutile chiedere ai prigionieri di guerra di Abbassia quale sia la migliore, non bisogna essere dei geni per sapere la risposta, basta essere amanti della libertà. Soprattutto se supportati da un’enorme forza di volontà e tanta fantasia.