Per chi arriva la prima volta in Israele, sicuramente una delle prime cose che saltano all’occhio sono le migliaia di soldati di leva che girano normalmente con un mitra sottobraccio fra gli sguardi indifferenti dei passanti. E’ molto difficile spiegare a chi è a digiuno delle norme di comportamento della società israeliana quale ruolo ricopra l’esercito nel contesto nazionale.

Ma questo io posso capirlo benissimo. Ai miei tempi (spero di non essere troppo patetico), anta e passa anni fa, quando in Italia la naja era ancora obbligatoria, chi si faceva incastrare era considerato un autentico sfigato. essere arruolato significava non avere gli agganci, le protezioni e le giuste conoscenze, non dico per farsi esonerare completamente, ma almeno per imboscarsi vicino a casa.

In Israele, almeno per ora, è l’esatto contrario. Arruolarsi e far parte dell’IDF è motivo di orgoglio e di prestigio. Una cosa ancora più inconcepibile se teniamo conto che la leva obbligatoria dura tre anni per i ragazzi e due per le femmine. Il ruolo e l’influenza dell’esercito israeliano sono così grandi che necessitano un post a parte, che prima o poi scriverò.

Ma il post di oggi è la dimostrazione più lampante di quanto sia importante far parte, seppure in maniera limitata, di un apparato che riesce ancora a raggiungere percentuali di consenso a livello nord coreano fra la popolazione israeliana. L’82% della popolazione è convinta che l’esercito sia l’istituzione più credibile, lasciando staccatissimi il potere giudiziario (58%), la polizia (53%) e il governo (40%), per non parlare dei politici sui quali stendo un pietoso velo.

Probabilmente Zahal è uno dei pochi eserciti al mondo che abbia messo in piedi un programma per integrare nelle proprie file disabili afflitti dalla sindrome di Down e patologie similari. E’ chiaro che un progetto del genere non ha lo scopo di forgiare nuovi combattenti da impiegare al fronte. L’obiettivo è molto più profondo ed è un ulteriore dimostrazione di quanto ancora l’IDF faccia molto di più del dovuto per integrare nei propri ranghi fasce della popolazione che in teoria non avrebbero avuto nessuna chance.

Il programma, oltre ad aumentare l’autostima  dei candidati si preoccupa anche di sensibilizzare, attraverso i militari che vengono a contatto in maniera diretta con dei soldati diversi ma uguali, l’opinione pubblica e facilitare i partecipanti al progetto “in uniforne siamo uguali” ad inserirsi nel mondo del lavoro.

Chiaramente è un programma che non è adatto per tutti e ci sono diverse tappe da affrontare prima di concludere tutto il percorso previsto. Fra i requisiti necessari ci sono un’età compresa fra i 20 e 27 anni, un’autonomia sufficiente a muoversi in maniera indipendente, essere in grado di viaggiare sui mezzi pubblici, usare un telefonino ed avere la capacità di intrattenere dei rapporti personali basilari.

In cambio le unità considerate adatte ad integrare nelle proprie fila questa popolazione disabile, si impegnano a coinvolgergli in incarichi significativi e all’altezza delle loro capacità. Ogni disabile viene seguito da una specie di soldato mentore che ha passato uno speciale corso per essere in grado di acquisire gli strumenti necessari per affrontare una situazione del genere.

Le varie tappe da attraversare prima di essere arruolati e considerati militari a tutti gli effetti comprendono un periodo di volontariato in una base logistica dell’esercito e un breve periodo di addestramento nella Gadnà, un corpo paramilitare che fornisce una prima infarinatura del comportamento da seguire in un apparato basato su gerarchie, simboli, gradi, armi, uniformi e comportamenti disciplinari assolutamente estranei alle nuove reclute. Come ogni altro gruppo ristretto, anche l’esercito ha tutto un mondo di sigle, modi di dire e comportamenti che si possono apprendere solo sul campo.

Il servizio militare vero e proprio dura un anno, durante il quale vengono appresi anche maniere comportamentali che saranno utili nella vita civile: cautela nelle strade, trasporto pubblico, rispetto della privacy, rapporti di amicizia, educazione sessuale e miglioramento della condizione fisica attraverso lo sport e tutta una serie di attività, come la discesa in corda doppia, che costituiscono una serie di “sfide” personali per poter dimostrare prima di tutto a se stessi che molti ostacoli che sembravano insormontabili non sono poi così ostici.

Una volta terminato tutto il percorso compreso il servizio militare vero e proprio c’è anche l’oppurtunità di continuare a rimanere nei ranghi dell’esercito, questa volta come dipendente civile del Ministero della Difesa israeliano. Il progetto è stato ideato nel 2005, ed è diventato operativo nel 2009, da allora sono decine il numero di disabili che partecipando al programma “in uniforme siamo uguali” hanno fatto un piccolo passo in più per rendere in definitiva più agevole l’inserimento nella società esterna che, inevitabilmente, prova una certa ritrosia a confrontarsi coi diversi.

Immagino che chi non è a contatto con la società israeliana possa non identificarsi con iniziative del genere, il solo fatto di vedere così tanti ragazzi armati in giro per il paese crea a molti un senso di una paese estremamente militarizzato, completamente in antitesi col tranquillo mondo occidentale. Ma questa è la realtà israeliana, e ben vengano iniziative del genere che non fanno che aggiungere un senso di aggregazione a ragazzi che altrimenti vivrebbero ai margini della società.

Un pensiero su “(Dis)abili e arruolati.

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