Rete, no gol


Questo titolo, da autentici iniziati del calcio, è dedicato a tutti coloro che hanno un’età gia abbastanza matura da poter essere definiti “ragionevolmente anziani” visto che nell’epoca a cavallo fra gli anni 50 e 70 del secolo scorso hanno avuto l’occasione di vivere in prima persona le radiocronache di Nicolò Carosio, mitica figura del giornalismo sportivo italiano. Un personaggio entrato a ragione nel Pantehon dei radio e telecronisti come frasi come quella di cui sopra.

Ma la mia veneranda età non ha nessun legame col soggetto di oggi, che si occupa si di calcio ma in un altro contesto. E’ uscito da poco in Israele il documentario “Mi huz la migrash” traducibile in “al di fuori del campo di gioco”,opera del regista Nissan Katz. Il film descrive la situazione dei giocatori arabo israeliani nelle varie squadre di calcio dentro il paese e anche fuori.

Al di là del tema in generale Katz si focalizza su tre racconti personali, tre storie che non fanno che confermare una volta di più quale fantastico vettore di mobilità sociale sia insito in questo sport che è così amato a tutte le latitudini.

Moussa, un pastore beduino del villaggio di Dir el Manksur

Ali Otman, gioca nell’unica squadra araba della serie A israeliana, i “Bnei Sachnin

Per ultimo Biram Kayal, giocatore nella squadra inglese del Brighton.

Katz, 44 anni, non è nuovo a questo tipo di documentari. Nel 2009 venne proiettato sugli schermi un altro suo film documentario “lo spogliatoio“, dove descrisse le diverse realtà di squadre calcistico a livello più o meno dilettantistico in posti come Nepal, Zanzibar e Nazareth

Nel corso del documentario Katz cerca di approfondire le condizioni che hanno contraddistinto i rapporti fra la minoranza araba e lo stato d’Israele per tutto ciò che riguarda lo sport. Come in moltissimi altri paesi, anche qui il football è stato da sempre un  mezzo di mobilità e riscatto sociale. Il primo stadio di integrazione è avvenuto con l’entrata in campo, è proprio il caso di dirlo, di giocatori ormai entrati di diritto nel Pantheon del calcio israeliano. fra gli altri spiccano senz’altro i nomi di Zahi Armeli (Maccabi Haifa) e Rifat Turk (Hapoel Tel Aviv). E’ non è un caso che fino ad oggi queste due squadre sono le più amate dai tifosi arabo israeliani.

Katz sostiene che il calcio è servito fra le altre cose per creare un fattore comune fra la minoranza araba e lo Stato d’Israele. Quando nella Nazionale o nella squadra del tuo cuore giocano anche giocatori a cui ti senti più vicino è chiaro che il legame si rafforzi nonostante le diversità.

Ma visto che è impossibile dividere il lato sportivo da quello politico, anche in questo campo le tensioni non mancano. Si va dalla squadra della capitale, il Beitar Jerusalem, che non ammette giocatori musulmani nelle sue fila, per arrivare ai giocatori arabi che quasi mai cantano l’inno nazionale israeliano. D’altro canto esiste la squadra dell’Hapoel Jerusalem, che ha fatto della tolleranza e della coesistenza il suo cavallo di battaglia. Stufi di andare allo stadio per vivere un’atmosfera di tensioni e di odio, così come succede ormai in tutte le parti del globo, i supporter dell’Hapoel, la squadra del sindacato, si sono autotassati e hanno fondato un proprio club sul modello del Barcellona ma chiaramente in chiave molto più modesta. Paradossalmente, la nuova squadra, che nel frattempo era precipitata nelle serie dilettantische del calcio israeliano, e risalita in maniera vertiginosa fino ad arrivare all’equivalente della Serie B.

In mezzo a questi antipodi rimangono le migliaia di giocatori, professionisti e non, che imperterriti del messaggio sociale e politico che ogni colpo al pallone dovrebbe significare, sgambettano e ansimano sul campo di gioco. Ragazzini di primo pelo, autentici professionisti, cummenda con la pancetta e ultra sessantenni ormai prossimi alla pensione. Tutti corrono dietro a questa magica sfera, l’unica che ti può regalare nell’arco di un attimo quella magica e inebriante sensazione del (quasi) gol realizzato.

L’unica pecca del film è quella di essere stato girato esclusivamente in arabo, escludendo così chi ha più necessità di conoscere e capire le problematiche di una minoranza, quella araba, che è molto più vicina di quanto si pensi ad una “israelianità” in continua costruzione, per molti versi più spontanea e dinamica di quanto il mondo politico voglia farci credere.

Anche se ormai mancano pochi giorni colgo l’occasione per augurare un sereno Ramadan a chi osserva le regole dell’Islam, e quindi: Ramadam Karim. E visto che fra poco il digiuno terminerà e comincerà la festa dell’Id el Fiter, Id Mubarak a tutti.

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