L’autentico Mars


 

Non molti potranno capire fino in fondo l’essenza, la magia e la nostalgia di quello che sto scrivendo. Solo chi ha fatto il servizio militare in Israele, e soprattutto il periodo dei miluim, la riserva che ogni congedato è tenuto a prestare fino all’età di 40 anni potrà apprezzare fino in fondo la sensazione nostalgica delle interminabili partite di shesh besh giocate per ammazzare il tempo durante le ore di guardia.

Per chi fosse a digiuno della terminologia necessaria il shesh besh medio orientale (sei-cinque in persiano) è l’equivalente del backgammon giocato in occidente, ma decisamente più allegro e rumoroso. Non starò qui a tediarvi sulle regole del gioco (che non sono poi così complicate), ne sulle sue antichissime origini e nemmeno sulle diverse versioni. Mi è molto più importante trasmettervi l’atmosfera e il folklore che si sono sviluppati attorno ad una semplice scacchiera di compensato ed al rotoloio di un paio di dadi.

Cominciamo col dire che il shesh besh non è affatto un gioco di fortuna come molti affermano. Generalmente chi lo dice è uno che non ci capisce una benedetta mazza. Il trik trak è essenzialmente un gioco di strategia, e qualsiasi giocatore che si rispetti dovrebbe essere in grado di sfruttare al massimo i numeri che la sorte gli ha destinato.

Se già si volesse chiamare la Dea bendata in aiuto il metodo migliore è quello di soffiare sui dadi o passarli racchiusi nel pugno sotto entrambe le ascelle, provare per credere. O almeno, così fanno i professionisti che si radunano nei caffè, al mercato delle pulci di Yaffo o come accennato prima, nelle postazioni militari sparse sui vari confini del paese.

Giocando al shesh besh è obbligatorio sfottere e denigrare l’avversario, le pedine vanno mosse il più veloce possibile, chi conta le case è da considerarsi un pivellino e i numeri desiderati vanno chiamati a voce alta. Non parliamo poi del movimento con il quale si lanciano i dadi, la torsione del polso è fondamentale per far rotolare i dadi nel giusto verso e quel tanto che basta per intimidire l’avversario facendoli capire con chi ha a che fare.

Solo con tutti questi ingredienti la partita potrà entrare nel ritmo giusto. Un dosato e sapiente miscuglio di voci concitate condito da imprecazioni sono indispensabili per far durare la sfida il giusto necessario: una manciata di minuti da giocare senza troppi indugi, il shesh besh, a differenza degli scacchi, si basa sulla velocità di pensiero e di esecuzione. Chiaramente non mancherà mai il commentatore di turno sempre pronto, a ragion veduta, a spiegarti le mosse sbagliate che solo uno come te poteva fare, visto che era chiaro che il 6-2 andava utilizzato per difendere la casa e non per mangiare la pedina avversaria.

Nonostante le sue antiche e nobili origini, il gioco della tavola (così come veniva chiamato dai romani) è ingiustamente associato a dei connotati negativi: è considerato un gioco per fannulloni, levantini e disoccupati, lontano anni luce dal più prestigioso gioco degli scacchi.

Mentre uno scontro sulla scacchiera dura mediamente qualche minuto, la partita vera e propria può durare ore, finito un giro si ricomincia subito un altro, i dadi rotolano senza sosta, il ritmo delle dita che muovono le pedine è ubriacante, il tempo per pianificare le mosse è minimo e le possibilità di giocata innumerevoli. I più sofisticati fanno uso della statistica per decidere quale pedina lasciare esposta e quindi indifesa.

Ma per un apassionato di shesh besh non esistono alternative, il gioco prudente basato sul minimo di rischi possibile è considerato praticamente blasfemo, una vera partita non può considerarsi tale se non si conclude con un sonoro Mars, meglio se turkì o Olamì.

Vi consiglio di affrettarvi a girare per i vicoli delle città vecchie di Acco, Gerusalemme e Yaffo per decifrare almeno i termini appena citati. Per riuscire a giocarlo decentemente ci vorrà qualche anno. Comunque io sono sempre pronto a dare qualche lezioncina a chi passa dalle mie parti. Come diceva Totò? “Giocatori si nasce”.

E io modestamente nacqui. O qualcosa di simile.

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