“In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”. (Genesi 1, 1-2).
Da questo primo passo che descrive la creazione del mondo sono passati secondo l’ebraismo 5777 anni, e fra pochi giorni, e più esattamente la sera del 9 settembre 2019 comincerà l’anno 5779. Ma le feste ebraiche per quanto possa sembrare strano hanno un’aspetto più agricolo e pratico che non esclusivamente religioso, e sotto questa ottica che va vista una lotta per certi versi inconciliabile fra il movimento sionistico e l’ortodossia religiosa ebraica.
Infatti con la nascita dello stato d’Israele si è sviluppato un antagonismo sul compito dell’ebraismo e della religione ebraica. O la religione ebraica è la massima espressione del suo popolo e quindi qualsiasi altra miglioria è destinata ad essere relegata all’interno delle infinite dispute teologiche fra le numerose scuole di pensiero delle diverse corti rabbiniche, o è parte di un ambito molto più grande che viene arricchito da argomenti che potremmo definire “diversamente ebraici” o “propriamente israeliani”.
Per un ebreo tradizionalista, più o meno osservante dei dettami religiosi, c’è senz’altro la necessità di continuare a sviluppare una cultura che sia in grado di esprimere al meglio i numerosi valori dell’ebraismo, valori che derivano dalla religione ma che si sono sviluppati anche al di fuori del suo contesto.
Qualsiasi cultura ha bisogno di possedere una coscienza critica che può solo svilupparsi attraverso un confronto con la realtà circostante. E proprio qui che si sta svolgendo la battaglia culturale che in questo momento vede la parte più umanista dell’ebraismo in posizione di inferiorità.
L’ebraismo laico ha quasi totalmente abbandonato la creazione di un alternativa culturale riguardo alle feste ebraiche. Quello che il movimento sionistico era riuscito a fare durante il 20simo secolo si è lentamente affievolito. Solo dove la produzione agricola è ancora viva e attiva, moshavim e kibbutzim, il rapporto fra le feste ebraiche e la terra ha mantenuto ancora un suo significato, ma visto che la maggior parte della popolazione israeliana è ormai concentrata nei grandi agglomerati urbani, l’unico concetto di festa esistente rimane quello di preghiere più o meno sentite e mangiate pantagrueliche.
Il fatto che l’ebraismo laico, e in senso lato tutta la popolazione israeliana, abbia rinunciato al suo diritto di interpretare le feste ebraiche secondo un’ottica diversa, lo pone automaticamente in posizione d’inferiorità, e senza la convinzione di saper creare un’alternativa valida, paritetica se non adirittura migliore, continuerà a sentirsi handicappato. Dei fratelli minori un pò ignoranti a cui si deve spiegare con pazienza perchè due più due non sempre fa quattro.
Rosh ha Shanà può essere quindi l’occasione per una profonda riflessione sul compito delle feste ebraiche in generale e dei valori da sviluppare e trasmettere in particolare. Lasciare tutto in mano al monopolio religioso solo perchè non ci sentiamo all’altezza di un confronto aperto e forse anche doloroso non farà che aumentare quel pericoloso senso di frustrazione che già alberga in molti di noi.
Ma siccome rimango un inguaribile ottimista voglio concludere questo post con una dei tradizionali auguri che ci si scambia in questo periodo:
“Che si concluda quest’anno e le sue maledizioni e che inizi il nuovo con le sue benedizioni”
Felice anno nuovo a tutti i miei più o meno affezionati lettori!
Shanà Tovà anche a te!
Che si concluda quest’anno e le sue maledizioni e che inizi il nuovo con le sue benedizioni.
Amen con tutto il cuore!
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Shanà tovà gam lechà!
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Auguri allora! E doppi per gli ottimisti, una specie di cui ovunque c’è grande bisogno
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