Il 5 giugno ricorreranno 50 anni dallo scoppio della guerra dei sei giorni, la più eclatante vittoria israeliana di tutta la sua breve storia. Non ho intenzione di ripercorrere le fasi e le motivazioni che portarono al conflitto, la mole di libri e di scritti al riguardo è impressionante e non c’è che l’imbarazzo della scelta per chi voglia approfondire la questione. Mi interessa molto di più cercare di capire quali sono le attuali conseguenze che ancora oggi influenzano in maniera determinante tutta la società israeliana, rendendola prigioniera di una vittoria che si è dimostrata nel tempo un peso indigesto impossibile da digerire e metabolizzare. Un interessante contributo al riguardo viene dal dott. Micha Goodman, storico e filosofo che ha pubblicato da poco un libro molto interessante dal nome “Comma 67”. Il concetto di Goodman è semplice, elementare direbbe Sherlok Holmes: chi è a favore di un ritorno alle frontiere anteriori la guerra dei sei giorni trasforma il paese in uno stato indifendibile, chi continua a propendere per l’occupazione della Cisgiordania non fa che disgregare dall’interno le basi democratiche della società israeliana col risultato di trasformare lo stato ebraico in un paese a maggioranza araba dove l’unico modo per governare rimarrebbe un regime di apartheid. Esiste quindi una simmetria speculare fra la destra e la sinistra israeliana, ogni parte si è trincerata sulle sue posizioni e non è in grado di vedere l’altro lato della medaglia.
La tesi che sviluppa Goodman è affascinante e seducente, anche se in definitiva non propone alcuna soluzione pratica, ma aiuta senz’altro a comprendere meglio le diverse sfumature delle parti in campo, sei giorni sono bastati a triplicare la superficie geografica di Israele, ma 50 anni non son ancora bastati a risolvere i problemi creati dal conflitto. In un lungo e interessante articolo pubblicato poco tempo fa sul quotidiano haAretz in data 12/5/2017 l’ex primo ministro Ehud Barak ha risposto punto per punto agli argomenti salienti del libro di Goodman.
Ma prima di entrare nel merito dell’articolo cercherò di esporre più approfonditamente le motivazioni di questo giovane ma molto interessante personaggio. Goodman sostiene che sia la destra “romantica” come la definisce, sia la sinistra hanno subito due grossi traumi in questi ultimi decenni che hanno portato entrambe le parti a ridefinire la propria ideologia. Durante la prima intifada la popolazione israeliana che si schierava su posizioni di destra si è accorta dell’impossibilità di continuare l’occupazione che fino ad allora era vista come qualcosa di estraneo alla realtà quotidiana. La seconda intifada ha invece aperto gli occhi alla sinistra che il processo di pace non è andato avanti nonostante le aperture politiche rivolte verso i palestinesi.
Per dirla con le sue parole: “la sinistra capisce che il ritiro non porterà alla pace, ma continuare l’occupazione ci porterà alla catastrofe” dalla parte opposta la destra sostiene che “la colonizzazione non ci porterà alla redenzione, ma il ritiro ci porterà alla catastrofe”.
Da qui il paradosso del “comma 67”, tutti hanno ragione e non esiste un’apparente via d’uscita. Il primo passo da fare per trasformare una situazione così critica da esistenziale a cronica per moderare i perenni attriti fra le parti consiste in un dialogo aperto scevro di quanti meno pregiudizi possibili. Per Goodman è un errore pensare che solo i religiosi abbiano il monopolio dell’ebraismo così come è sbagliato definire la sinistra l’unica detentrice del pensiero umanistico.
Come ultime considerazioni il libro affronta altri punti interessanti che solitamente passano inosservati nelle discussioni inerenti la problematica dei rapporti fra israeliani e palestinesi. Il primo che proprio i territori occupati sono il fulcro dell’identità ebraica. Gerusalemme, Hevron, Betlemme, Ghilo, Nablus e molti altri centri sono i luoghi dove si sono svolti gli episodi più importanti del racconto biblico, e come tali hanno un’importanza fondamentale per l’identità culturale e nazionale.
Un altro punto fondamentale è quello che da sempre l’halachà, la giurisdizione ebraica, ha privilegiato la sacralità della vita umana alla sacralità del territorio. In altre parole i criteri della sicurezza sono quelli che devono influire sul pensiero giuridico ebraico e non viceversa. E come ultimo punto Goodman ricorda che l’ideologia biblica ha sempre messo in evidenza la tolleranza verso le minoranze, un valore che in questo momento è passato completamente in ultimissimo piano.
Vediamo adesso come risponde Barak a queste argomentazioni. Solo per capire con chi abbiamo a che fare tengo a sottolineare che Barak è stato Capo di stato maggiore dell’esercito, Ministro della difesa e Capo del governo. In aggiunta è il soldato col maggior numero di medaglie e riconoscimenti militari mai avuti, insoma certamente non uno sprovveduto.
I punti salienti sono i seguenti: la minaccia demografica è inarrestabile e praticamente dietro la porta, entro meno di 50 anni la maggioranza della popolazione fra la costa e il Giordano sarà araba e ciò porterà lo stato ebraico a una posizione moralmente inamissibile.
Esistono soluzioni militari, tecniche e diplomatiche che possono garantire la sicurezza d’Israele una volta ritiratici dalla cisgiordania. Già oggi la collaborazione fra israeliani e palestinesi è molto più salda di quanto ci si possa immaginare. Non passa praticamente giorno che qualche cittadino israeliano metta a repentaglio la propria vita entrando in zone al di fuori del controllo militare israeliano e venga reimpatriato sano e salvo.
La stragrande maggioranza degli ex responsabili della sicurezza israeliana si sono dichiarati d’accordo che Israele ha più che una soluzione per poter garantire la propria sicurezza e una coesistenza pacifica con un futuro stato palestinese. La politica della paura non fa che immobilizare qualsiasi iniziativa, incide negativamente sul morale nazionale e di conseguenza rafforza la sensazione di emergenza, chiudendo sempre di più qualsiasi via di uscita da questo pericoloso circolo vizioso.
La sicurezza è la combinazione di vari fattori: collaborazione, intelligence, tecnologia e diplomazia, e non soltanto il controllo territoriale. Chi crede fermamente nella “grande Israele” a scapito dell’unità nazionale è disposto a minare i cardini di una sana democrazia criticando senza sosta il potere giudiziario, legislativo e governativo.
La decisione finale di quale politica intraprendere rimane sempre nelle mani di coloro, che eletti democraticamente, decidano delle sorti del paese. Ma un vero leader, un autentico statista, deve essere in grado di descrivere esattamente al proprio popolo la cruda realtà, anche a scapito della propria popolarità verso i suoi elettori. L’analisi di Barak è senz’altro lucida, ben argomentata e profonda. Il problema è che il personaggio rimane molto controverso per il suo carattere al limite dell’arroganza. Per il momento l’ex primo ministro non si pronuncia su un suo possibile ritorno sulla scena politica israeliana ma conoscendo l’ambizione del personaggio non escluderei assolutamente un passo del genere. Nonostante Barak abbia sicuramente buone carte da giocare non entrerà in azione senza avere prima la certezza matematica di poter basarsi su un solido zoccolo politico che gli possa garantire un successo anche parziale nelle prossime elezioni. Nel frattempo le stelle, cioè noi, stanno a guardare.
P.S. E’ da poco iniziato il mese del Ramadan, il tradizionale digiuno musulmano, e visto che ogni tanto ho dei lettori da paesi arabi compresa l’Autonomia palestinese, anche se non ho la certezza di avere dei lettori musulmani ne aprofitto per tutti i potenziali lettori musulmani del mio blog Ramadan Karim!
Non so come, ma spero con tutto il cuore che si trovi una soluzione giusta. Mi piacerebbe molto che Ehud Barak tornasse in campo.
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Ciao Simonetta, per il momento una soluzione fattibile mi sembra abbastanza improbabile. Ehud Barak è senz’altro un personaggio di grande spessore, ma il suo comportamento lo rende inviso alla maggioranza degli israeliani
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Non esiste una soluzione giusta e stabile unilaterale, cioè presa solo da una parte dei contendenti. E non può esserci pace in una terra strategica come la palestina tutta, se non c’è un unico Padrone (padrino) dell’area.
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