“In quel tempo c’erano sulla terra i giganti (Nefilim), e ci furono anche di poi…Essi sono gli uomini potenti che, fin dai tempi antichi, sono stati famosi”. (Genesi 6:4). Questo mito dei Nefilim è stato usato da sempre in Israele per paragonare i padri fondatori a queste mitologiche figure. Con la scomparsa di Peres si può affermare senza ombra di smentita che l’ultimo dei Nefilim della fondazione dello stato d’Israele ci ha lasciato.
Fiumi di inchiostro sono stati scritti in questi pochi giorni riguardo la scomparsa di Shimon Peres, ed è praticamente impossibile soffermarsi su qualcosa che ancora non sia stato scritto al suo riguardo. La frase “due volte nella polvere e due volte sull’altar” suona riduttiva per un uomo così complesso e così significativo non solo per la storia di Israele ma anche anche per la sua influenza nel mondo. Peres ha conosciuto decine di alti e bassi e la sua biografia basterebbe a coprire di gloria decine di persone.
Membro fondatore del kibbutz Alumot, dove si prefiggeva un futuro di pastore di pecore e di poeta, Peres è entrato di prepotenza sulla scena politica israeliana e ne è stato protagonista di primo piano per oltre 60 anni, un record in Israele e probabilmente in tutto il mondo democratico.
Visionario ma pragmatico, cinico ma non spietato, forse più odiato di quanto sia stato poi amato Peres ha vissuto la maggior parte della sua esistenza col complesso di colpa di non essere un vero zabar, e come tale di non essere mai stato veramente accettato dall’Elite politica israeliana. E poco importa se i risultati da lui ottenuti nel periodo in cui diresse il Ministero della Difesa furono la base indispensabile per i successi militari del nascente stato ebraico, l’assenza di un fulgido passato militare nel suo Curriculum costituirono da sempre una macchia indelebile.
Per molti anni girò in Israele una famosa storiella su Peres che nei suoi continui giri per le capitali del mondo è in cerca di un sarto in gradi di cucirgli un abito su misura. Ovunque arrivi, Parigi, Londra Washington, la risposta è sempre la stessa: non c’è abbastanza tessuto per confezionare un abito del genere. Demoralizzato Peres torna in Israele e si rivolge al primo sarto che incontra. “Che problema c’è?” gli risponde costui, “te ne farò uno su misura e ancora ne avanzerà di tessuto”. “Ma come,” si stupisce Peres, “nelle migliori sartorie tutti si sono rifiutati e tu qui mi dici che non c’è nessun problema?”. “Vedi Shimon” risponde il sarto “nel mondo tu sei così grande, ma da noi sei così piccolo”. Questa piccola barzelletta è a mio avviso la chiave per decifrare il codice Peres.
Un ragazzo catapultato all’età di 11 anni in una realtà completamente diversa da quella polacca. Il suo eterno status di “esterno” ha influito costantemente sui suoi sentimenti. La necessità di Peres di sentirsi amato e accettato è stata da sempre una costante della sua vita politica. Paradossalmente questo tanto desiderato affetto è arrivato solo nel momento in cui terminò la sua carriera politica attiva per diventare Presidente dello stato ebraico.
Cosa se ne sono dette sul suo conto? Che avesse una madre araba, che fosse l’azionario maggioritario di una delle principali industrie del paese e via di seguito. Negli anni a cavallo fra gli anni 70/80 l’odio nei suoi confronti era diventato ormai un imperativo. Da sinistra come da destra. Uno dei suoi maggior difetti, quello di non riuscire a trasmettere le sue autentiche emozioni, erano il suo maggior ostacolo, e per questo era considerato poco credibile.
La sua longevità politica ha del soprannaturale, è riuscito a sopravvivere a personalità come Beghin, Rabin, Igal Allon, Dayan, e moltissimi altri. Uno dei motivi di questa lunghissima attività è da collegarsi alla sua intelligenza politica, alla sua capacità di percepire in anticipo sia i piccoli cambiamenti locali che quelli epocali e cercare di influenzarli e modificarli.
Di tutti i risultati conseguiti da Peres nel corso della sua infinita carriera politica quello che viene meno ricordato in questi giorni è a mio avviso uno dei più significativi fu la politica economica da lui intrapresa che permise in meno di un anno di ridurre un’inflazione galoppante che arrivò nel 1984 al suo massimo storico del 400% per arrivare al 4-5% nel 1985. E’ vero che il piano di risanamento penalizzò in maniera pesante il settore produttivo a scapito del bancario, ma l’alternativa era la bancarotta del paese.
Di tutte le personalità politiche presenti alle esequie di Peres l’assenza più eclatante e più triste è stata per me quella dei rappresentanti della lista araba che hanno dimostrato una miopia e immaturità politica inspiegabili. Un atteggiamento del genere verso un personaggio che era entrato di diritto nel consenso mondiale e rappresentava l’immagine più positiva d’Israele, non ha fatto altro che allargare ulteriormente quel solco di diffidenza mai scomparso fra arabi ed ebrei. L’opinione di molti, compresa la mia, è che mai come in questa volta la leadership araba abbia agito in netto contrasto con la maggioranza dei suoi elettori.
Sono più di 40 anni che ho mangiato pane e Peres quotidianamente, e nonostante sia cosciente di attraversare un momento epocale, non penso di essere assolutamente in grado di concepire la portata dei cambiamenti in corso. La morte di Peres simboleggia la fine di un epoca, quella dei fondatori dello stato di Israele, dei loro sogni, dei loro progetti e della loro realizzazione. Attivo fino all’ultimo per la costruzione di un mondo migliore, una volta venne interrogato da uno dei figli su quale epitaffio si sarebbe dovuto scrivere sulla sua lapide. La sua risposta fu perentoria: “Morì prematuramente”.
Per competere con le nuove sfide con cui deve confrontarsi la Israele odierna, l’orizzonte politico dell’attuale leadership è troppo ristretto e non si vede ancora in giro una personalità in grado di coniugare la pragmaticità e l’ottimismo dello scomparso Premier/Presidente e tanto altro ancora. Se mai ce ne sarà uno.