Fra qualche giorno, e più precisamente il 4 luglio 2021 ricorrerà il 45simo anniversario di una delle operazioni militari più ardite degli ultimi decenni. Per molti la missione più impossibile ma per tutti un evento che rimarrà scolpito per sempre negli annali della storia: l’operazione tuono meglio conosciuta come operazione Entebbe. Un libro apparso in questi giorni rivela nuovi risvolti della breve notte di Entebbe (l’operazione durò meno di trenta minuti) così come fu vissuta dagli stessi protagonisti.
A detta degli autori la cosa più sorprendente emersa durante la stesura del testo è quella che in tutti questi anni l’esercito non raccolse in maniera completa e capillare le testimonianze dei partecipanti alla missione, una routine elementare e necessaria per capire e correggere i possibili errori compiuti nel corso dell’operazione.
E’ questa quindi l’importanza fondamentale di questa pubblicazione, non l’autoglorificazione fine a se stessa ma piuttosto una testimonianza di prima mano dei protagonisti di quella che ancora oggi è considerato un punto cardinale di tutti i blitz militari svolti dalle diverse teste di cuoio sviluppatesi da allora nella maggior parte degli eserciti sparsi nel mondo.
Al di là delle testimonianze dirette che chiariscono diversi lati oscuri del raid l’aspetto più importante del libro è la possibilità di capire più a fondo quali siano stati i fattori determinanti che abbiano influenzato sul successo dell’operazione.
Fra i più importanti vi è senz’altro il fattore umano. Il commando che prese parte all’operazione era formato da elementi della “saieret matcal” la leggendaria unità d’elite dell’esercito israeliano. Uomini perfettamente addestrati e attrezzati per operazioni del genere.
Il secondo fattore fu quello della sorpresa. Israele fu presa allo sprovvisto quando i dirottatori riuscirono ad atterrare in un paese non solo ostile ma anche lontano oltre 4.000 km, una distanza assolutamente inaspettata. Ma proprio quest’enorme distanza ed il senso di sicurezza che trasmise ai dirottatori fu fondamentale per contribuire a far loro abassare la guardia ed accrescere l’effetto sorpresa dell’incursione israeliana.
Anche le più semplici operazioni militari hanno meno possibilità di successo senza un adeguato servizio di intelligence. Nel caso di Entebbe le enormi ed obiettive difficoltà furono superate soprattutto dalla capacità di adeguarsi ad una realtà così fluida e mutevole. Fino al momento del decollo non era chiaro la disposizione degli ostaggi e quella dei terroristi. Nonostante i progetti originali del terminal erano in mano israeliana non si sapeva assolutamente quanti e quali cambiamenti fossero avvenuti nel corso degli ultimi anni. Una parte di queste nuove informazioni furono fornite quando una parte del commando si trovava già in volo, a testimoniare quanti sforzi e quanta energia furono investite.
Ma il fattore decisivo fu senz’altro il comportamento dell’alto comando militare e del governo. Anche nei scenari più rosei nessuno poteva immaginare un successo di tale portata. Rabin stesso, allora primo ministro, era inizialmente contrario alla missione, ma la convinzione dei suoi generali fu tale da convicerlo a dare il via libera. Uno dei suoi più stretti collaboratori raccontò che dopo il decollo Rabin gli chiese di redarre una lettera di dimissioni nel caso l’operazione fallisse. “Cosa significa fallire?” chiese il suo capo di gabinetto “oltre 25 morti” fu la laconica risposta di Rabin.
Da allora operazioni del genere si svolte un pò dappertutto con più o meno successo dovendosi sempre confrontare col metro di giudizio creatosi ad Entebbe. Ancora oggi nessuno a mio avviso è riuscito a superarlo.
Nelle giornate immediatamente successive al raid ero impegnato con gli esami di maturità, la mia classe era quella della scuola ebraica e forse proprio per questa impresa presi il massimo dei voti, nessuno degli esaminatori voleva correre il rischio di trovarsi improvvisamente un Hercules C 130 in procinto di atterrare nel suo cortile.