Fra pochi giorni e più precisamente giovedì 5 maggio si svolgerà l’annuale ricorrenza di Yom haShoà ve hagvurà, la giornata dedicata alla Shoà e all’eroismo di quanti combatterono anche solo sopravvivendo la barbarie nazista.
Per questa data ho deciso questa volta di soffermarmi su di un aspetto che almeno nel titolo suona familiare ma nei particolari è sconosciuto alla maggioranza di noi, i Giusti tra le nazioni. Una famosa frase del Talmud afferma che “Chi salva una vita è come se salvasse il mondo intero” sottolineando se ce ne fosse bisogno la sacralità dell’esistenza umana. Ma il termine Giusti fra le nazioni rimane sfuocato se non si conoscono i personaggi, le loro storie e i loro atti di eroismo. A tutt’oggi l’istituto del Yad vashem predisposto alla ricerca e allo studio della Shoà ha nominato oltre 24.000 persone degne di questo riconoscimento. In Italia la lista è composta da 634 nominativi. Ne ho scelto qualcuno sintetizzando in poche righe la loro opera per onorarne il loro ricordo con la speranza che questi pochi nomi diano lo stimolo di approfondire l’operato di chi a rischio della propria vita salvò il mondo intero.
Carlo Angela. Medico e antifascista piemontese (padre di Piero Angela), nascose nella sua clinica di San Maurizio Canavese numerosi ebrei e antifascisti, facendoli passare per malati. La sua azione è rimasta sconosciuta per mezzo secolo, fino a quando uno degli ebrei salvati da lui, Renzo Segre, l’ha raccontata nel libro Venti mesi (Sellerio, 1995)
Lorenzo Perrone. Un muratore italiano famoso per la descrizione che di lui fece Primo Levi nelle sue opere, in particolare in Se questo è un uomo. « Ma Lorenzo era un uomo; la sua umanità era pura e incontaminata, egli era al di fuori di questo mondo di negazione. Grazie a Lorenzo mi è accaduto di non dimenticare di essere io stesso un uomo ». Perrone faceva parte di un gruppo di abili muratori italiani, contrattati dalla ditta Boetti, che furono trasferiti ad Aushwitz per l’espansione del campo, procurò del cibo a Levi che sottraeva dalla sua razione, salvandogli la vita; gli donò anche una veste multicolore che veniva indossata sotto l’abbigliamento del campo per aumentare la protezione al freddo.
Salvatore Corrias. Prima finanziere dell’esercito italiano, arruolatosi nelle file partigiane dopo l’armistizio dell’8 settembre. Corrias scelse di continuare ad indossare la divisa; ciò gli permetteva di muoversi più agevolmente lungo la frontiera italo-svizzera, accompagnando verso la salvezza, oltre a centinaia di ebrei destinati allo sterminio, anche perseguitati politici di ogni orientamento. Fu catturato e fucilato dalle Brigate nere il 28 gennaio 1945, proprio mentre stava rientrando alla caserma della GdF di Bugone, dopo aver portato in salvo in Svizzera un ex prigioniero inglese.
Benedetto De Beni. Capitano dell’artiglieria italiana da montagna, prestò servizio presso il fronte russo. Insieme ad altri membri della sua compagnia mise in salvo Sara e Rachel Turok, impiegandole nella cucina del campo italiano. Nella primavera del 1943, per volere del generale Giglio, Sara e Rachel furono assegnate ad un’unità che rientrava in Italia. Il capitano De Beni affidò alle sorelle una lettera per la moglie con la quale la pregava di occuparsi delle due ragazze. Giunsero a Udine e qui furono sistemate in un convento, nel frattempo spedirono alla signora Isa la lettera del Marito. Questa prontamente, inviò loro del denaro per poter raggiungere Gromo, dove viveva la famiglia, presso Villa Cittadini, di proprietà del suocero del capitano De Beni. L’arrivo delle sorelle venne registrato e così poterono usufruire della tessa annonaria. Restarono un anno nella villa aiutando la famiglia nell’accudire i bambini piccoli. Sara successivamente raggiunse Firenze, grazie all’aiuto di alcuni parenti dei De Beni, la famiglia russa degli Yevsieko. Rachel si fermò a Gromo fino alla fine della guerra. Dopo la liberazione i partigiani la aiutarono a unirsi alle truppe sovietiche per il rientro in patria.
Luigi e Trento Brizi. Padre e figlio componenti della “Rete di Assisi”. I due gestivano un negozietto di souvenir vicino a Piazza Santa Chiara. Luigi eseguì piccoli lavori di tipografia con una macchina a pedale. Durante la guerra, usò questa macchina per stampare carte d’identità false che permetterono agli ebrei di soggiornare indisturbati in alberghi o presso famiglie e di ottenere razioni di cibo. Nei casi più difficili vennero usati come nascondigli i conventi femminili di clausura. Il problema con i documenti falsi furono i timbri, che rischiavano di essere confrontati con gli originali. Per fabbricarli Luigi usò i nomi dei comuni dell’Italia meridionale, mentre il figlio Trento dovette a volte arrischiarsi nelle campagne in bicicletta per recapitarli.
Onorare e ricordare l’operato di questi Giusti è forse il modo migliore di combattere quella torbida ondata di revisionismo storico che cerca in tutti i modi la maniera di sminuire l’orrore della Shoà.