Alla luce dei continui atti di terrore perpetrati contro civili israeliani nelle ultime settimane la domanda di rito è se sia iniziata o no la terza intifada palestinese. La risposta per il momento non è affatto univoca. Secondo l’intelligence israeliana non esiste ancora un’organizzazione vera e propria che diriga le operazioni sul campo, per il momento la dirigenza politico religiosa palestinese si limita a sostenere le azioni in corso dandole così una patina di legalità. Ma per il momento le forze di sicurezza dell’autonomia palestinese si tengono ufficialmente ancora in disparte preferendo le azioni sporadiche dei vari cani sciolti, molto più difficili da prevedere e contrastare.
Nonostante i disordini comincino a espandersi al di fuori dei territori occupati, il fulcro dei contrasti rimane Gerusalemme. La mantra di Gerusalemme “unita ed indivisibile” che dal 1967 viene ripetuta ininterrottamente non importa quale sia il colore del governo alla guida del paese nasconde una verità molto più complessa, contraddittoria e controproducente.
Nel 1996 Nethanyau vinse le elezioni di allora accusando sistematicamente Peres di voler dividere la città santa, oggi in maniera paradossale è proprio l’attuale premier che allarga sempre di più il divario fra le due parti della città, gettando così ulteriore benzina sul fuoco di una situazione perennemente instabile e al limite del collasso.
Che sia chiaro, Abu Mazen non è certo uno stinco di santo ed i suoi ultimi discorsi non fanno che affossare le ultime speranze di chi si batte per continuare un dialogo costruttivo fra chi ancora crede in una soluzione del conflitto. Ma è innegabile che la politica municipale del comune di Gerusalemme è altamente discriminante nei confronti della parte est della città.
I motivi sono molteplici ma i principali sono essenzialmente due: la difficoltà di riscuotere le tasse municipali necessarie a riammodernare radicalmente le strutture esistenti: rete fognaria e idrica, trasporti, educazione, verde pubblico, ecc. e la poca voglia di far rispettare le leggi in vigore su una parte di territorio che ufficialmente fa parte della città ma di fatto è una piccola galassia formata da campi profughi e piccoli villaggi inghiottiti dalla megalomane idea di una grande città metropolitana. Quartieri come Shuafat, Kalandia, Jabel Mukaber o Sur Baher non fanno che aggiungere qualcosa come 300 mila abitanti dei quali Israele si fa carico di pagare pensioni, assistenza sociale, assicurazione medica ed altro.
La situazione è tale che entro pochi anni la maggior parte della popolazione della capitale israeliana sarà formata da ebrei ortodossi e palestinesi, la cui unica cosa che gli accomuna è il rifiuto dell’ideologia sionista. Ma come al solito la classe politica israeliana non è in grado di prendere decisioni impopolari ma inevitabili. I casi sono due, o si continua nella sciagurata idea di una strisciante annessione dei territori occupati e allora bisogna concedere alla popolazione palestinese un livello di vita molto più alto di quello attuale o si decide di liberarsi di quelle inutili zavorre che sono i grossi centri abitati confinanti con la città.
E poco importa se la classe politica palestinese con Abu Mazen in testa cerchino di portare quanta più acqua possibile al mulino della loro causa, la lotta per una coesistenza pacifica fra le varie componenti del conflitto fra Israele e palestinesi passa necessariamente attraverso un sistematico miglioramento del livello socio economico di questi ultimi, può darsi che Nathanyau lo sappia ma non sono affatto certo che ne sia convinto o che sia in grado di superare le prevedibili opposizioni dei suoi alleati politici.
Le violenze di quest’ultima tornata hanno fatto emergere un nuovo fattore da non sottovalutare, la spirale dell’odio e dell’incomprensione da parte ebraica è salita di un ulteriore gradino. Gli atti di violenza verso i palestinesi sono aumentati e comprendono non solo i piccoli ma battaglieri gruppuscoli estremisti degli insediamenti, ma hanno raggiunto una parte non insignificante della gioventù israeliana.
Facebook e Twitter sono i nuovi vettori attraverso i quali si diffonde l’odio non solo verso gli arabi in generale, israeliani e non, ma anche verso le istituzioni. Dagli ufficiali della polizia e dell’esercito, passando per magistratura, deputati, ministri ed arrivando adirittura fino al premier, tutti sono finiti nel mirino di un’intolleranza fino ad oggi sconosciuta.