Compagno direttore


manager

 

Un articolo pubblicato qualche giorno fa sul quotidiano Yedioth haAhronot è completamente dedicato al mio Kibbutz. A parte il titolo un pò pomposo “Non vogliamo una Jaguar vicino parcheggiata vicino casa”, diverse inesattezze e la descrizione leggermente edulcorata della nostra situazione e del nostro passato prossimo e remoto, l’articolo affronta uno dei nodi cruciali della differenza fra il successo e l’insucesso economico e sociale dei kibbutzim. Quali sono i fattori che possono stimolare una piccola comunità di 200-250 membri a dare il meglio di se stessi per favorire il benessere e la prosperità di tutta la comunità? Quale modello imprenditoriale va adottato per motivare il singolo a sforzarsi più del necessario sapendo che il suo ulteriore sforzo non verrà assolutamente retribuito economicamente?

Le risposte non sono affatto semplici, una società collettiva come il kibbutz non può durare molto se non possiede un collante sociale particolarmente solido ed un’altrettanta base economica. Il benessere economico o adirittura la ricchezza non bastano a far si che un gruppo di persone siano in grado di convivere su basi egualitarie ed accettare che anche il tuo vicino riceva le tue stesse condizioni di vita a prescindere dal suo contributo economico e comunitario. In parole povere non importa se tu sia uno spazzino o il mega direttore della fabbrica, in teoria ti spettano gli stessi diritti.

Questo modello, riassunto nella famosa frase “Ognuno da secondo le proprie possibilità e riceve secondo le proprie necessità” è fallito nella maggiore parte dei kibbutzim soprattutto grazie ad una politica governativa che ha penalizzato il movimento kibbutzistico, ma non solo. Sasa è l’esempio che è possibile uscire da un enorme momento di crisi a condizione di mantenere un tessuto sociale sano e solidale. Anche se per essere onesti un kibbutz nostro vicino non è da meno su come saper gestirsi e migliorarsi.

La ricetta? Prima di tutto investire nelle strutture comuni del kibbutz (sala da pranzo, luoghi di ritrovo, attività culturali, educazione, ecc.) per lanciare un messaggio forte e chiaro: “la maggior parte di noi vuole rimanere una comunità egualitaria, ergo investiamo nei servizi a scapito del benessere del singolo”. In secondo luogo favorire il più possibile le risorse umane a disposizione: studi universitari, corsi professionali ma anche arrichimenti personali.

Con l’arricchimento personale e professionale dei propri membri il kibbutz è in grado di incoraggiare il singolo a intraprendere delle nuove strade. Le soluzioni occupazionali di una volta non sempre sono in grado di attrarre nuove leve o di mantenere quelle attuali. Il mondo del lavoro è molto dinamico di una volta, lera informatica ha sconvolto gli equilibri e c’è molto più spazio di una volta a cercare nuovi sbocchi.

In un posto piccolo come il mio kibbutz c’è posto per avvocati, commediografi, scultori, gelatai, start up di software, registi teatrali,un parco di avventura e altro. Tutto questo in aggiunta ai tradizionali rami di lavoro agricoli e alle due fabbriche. Si ripropone dunque la domanda d’apertura, cosa spinge così tanta gente a sforzarsi oltre il dovuto sapendo che i rischi sono maggiori delle possibilità di successo e che molto spesso i membri del kibbutz si riveleranno parchi di incoraggiamenti e complimenti.

A mio parere è un mix di atmosfera, voglia di rischiare e la consapevolezza che se hai una buona idea, una buona reputazione e le giuste doti c’è chi ti darà una mano. Aspetto commenti in proposito soprattutto di vita vissuta non necessariamente in kibbutz ma nel mondo del lavoro in generale.

Se posso comunque consolarvi sappiate che il kibbutz non è questo paradiso che a volta può sembrare. Certe volte si ha la sensazione di vivere in un mondo di pazzi pronti a scannarsi per cose che nel mondo normale sono insignificanti, non è un caso che in tutta Israele la popolazione dei kibbutzim sia sotto il 2%, vero Ariela?

 

Un pensiero su “Compagno direttore

  1. Credo che i kibbutzim rimasti siano da considerarsi come delle imprese eroiche e sopravvissute alle enormi difficoltà economiche, ma soprattutto alle sirene liberiste che hanno sconvolto culturalmente la sinistra in tutto il mondo. Nella mia prima esperienza in Kibbutz (’74) già s’intravedevano le prime avvisaglie d’uno sgretolamento ideologico: quando non si ha nulla è facile dividere il poco con altri; quando invece inizia un certo benessere, cominciano i desideri individuali, anche ingiustificati e che scambiano volentieri il consumismo con la libertà di pensiero, l’avere con l’essere. Quindi i kibbutzim rimasti sono veri eroi d’una concezione esistenziale alta, basata sullo sviluppo culturale e la libertà di pensiero. Peccato che questa straordinaria esperienza, laboratorio politico d’alternativa esistenziale non abbia la forza e l’energia per incidere sul pensiero unico d’un sistema capitalistico ingiusto e fallimentare, prima ancora che su una sinistra fin troppo revisionata!

    "Mi piace"

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...