Duemila chilometri di pista attraverso deserti e altipiani, segnata dal passo lento delle carovane partite dai monti dell’Arabia Felix e diretti verso la magica Petra ed i porti del Mediterraneo, questo è l’itinerario di una delle più antiche vie commerciali del mondo: la via dell’incenso. Una via che nacque nel III secolo a.c. quando egiziani, siri, egizi, nabatei, giudei e romani facevano un immenso consumo di incenso (Nerone ne bruciò il prodotto di un anno intero ai funerali di Poppea) e si snoda attraverso montagne e deserti, antichi posti di guardia e resti di città di cui a volte si sono persi nomi e memoria. Una via che nasconde lungo il suo itinerario un elemento senza il quale è impossibile percorrere le migliaia di chilometri che separano lo Yemen dal porto di Gaza: l’acqua. Nonostante furono gli egizi a sviluppare questa antica via commerciale i protagonisti in assoluto di questa fondamentare arteria carovaniera furono i Nabatei, una popolazione nomade originaria della penisola arabica spostatasi successivamente verso Ovest fino a raggiungere l’antica Idumea.
I Nabatei riuscirono a detenere per secoli il monopolio del commercio della mirra e dell’incenso, due prodotti enormemente richiesti nell’antichità sia dal punto di vista cosmetico che non nei riti religiosi. Un monopolio basato su due indispensabili pilastri: l’addomesticamento del cammello e la creazione di una rete segreta di cisterne d’acqua disseminate lungo il percorso.
Dei Nabatei sappiamo relativamente poco, essendo nomadi avevano sviluppato soprattutto una tradizione culturale orale tralasciando una documentazione scritta. Lo storico Diodoro il siculo definisce i Nabatei un popolo che non si costruisce case, non pratica l’agricoltura e non beve il vino, insomma degli autentici nomadi duri e puri. Continuando nella sua descrizione Diodoro sottolinea il loro amore per la libertà, il carattere guerriero e la loro superiorità nell’allevare ovini nelle zone desertiche rispetto alle altre popolazioni.
Questo carattere indomito riuscirà a frenare la conquista romana della zona. Anche se ufficialmente l’Impero romano si appropria della zona intorno al 106 d.c. sotto il dominio di Traiano, di fatto i Nabatei rimarrano i padroni del deserto, limitandosi a pagare un pegno daziario ai nuovi padroni. La via dell’incenso ed i traffici ad essa collegati subiranno degli alti e bassi nel corso dei secoli, Erode prima ed i romani poi cercheranno vie alternative per scalfire il monopolio Nabateo e appropriarsi di una fetta sostanziale dell’enorme torta economica rappresentata dal commercio dell’incenso. E’ proprio in questo periodo di transizione che i Nabatei si trasformano in allevatori di cavalli, riuscendo a creare attraverso lunghe selezioni quello che definiamo oggi il cavallo arabo.
I nuovi traffici e le nuove vie portarono ad un significativo e definitivo cambiamento dello stile di vita Nabateo. L’avvento della civiltà Bizantina comporta il passaggio alla civiltà urbanistica, quelle che erano sporadiche stazioni di posta e di rifornimento per le innumerevoli carovane diventano fiorenti e spettacolari città. Ovdat, Mamshit, Shivta, Nitzana ed altre ancora sono sopravvissute fino a noi per raccontarci con quali straordinarie tecniche ingegneristiche sia stato possibile edificare templi, basiliche, terme, mercati in mezzo al deserto. Le città Nabatee del Neghev rappresentano insieme a Petra il canto del cigno di questo misterioso e per questo così affascinante popolo. L’assimilazione e la graduale conversione al cristianesimo prima e all’islam poi, determineranno la loro scomparsa accompagnato comunque da un alone leggendario.
La cultura Nabatea ha lasciato nella zona del Neghev i suoi segni indelebili, ma più di ogni altra cosa ha segnato per decenni nell’immaginario collettivo israeliano il mito di Petra, la “roccia rossa”, un traguardo da raggiungere comunque, anche a costo della vita stessa. Una famosa canzone israeliana degli anni ’50 dette lo stimolo a decine di giovani per attraversare di nascosto la frontiera ed arrivare sino alla città Nabatea, la maggior parte dei quali perse la vita durante il percorso. La situazione divenne critica a tal punto che lo stesso Ben Gurion proibì la trasmissione della canzone alla radio.
Eccovi una parte del testo: “Al di là delle montagne e del deserto, le leggende narrano di un posto, dal quale nessuno è tornato vivo, il suo nome è la roccia rossa”.
Chi erano dunque in definitiva i Nabatei? E’ senz’altro più facile dire cosa non fossero. Non erano un popolo o un entità etnica come la definiremmo oggi, erano piuttosto un incontro fra la civiltà nomade beduina e la civiltà stanziale di origine ellenistica. I Nabatei si identificavano secondo criteri familiari e tribali. Il senso d’indipendenza del singolo aveva un enorme valore e il sovrano di turno era considerato primo fra gli eguali e non il detentore di un potere assoluto.
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