Non riesco a ricordarmi un periodo della sua vita in cui Bibi Nathanyau fosse più solo di quello attuale. Non è che non abbia passato dei brutti momenti, anzi, ma a differenza di adesso c’era sempre la sensazione che avesse una base su cui contare ed un programma con il quale trascinare ministri, deputati ed elettori. L’impressione odierna è che il primo ministro israeliano sia diventato prigioniero della sua retorica e dei suoi proclami anti terrorismo con i quali aveva da sempre costruito le sue campagne elettorali. Da tempo l’uomo forte della politica israeliana è stato superato a destra da personalità almeno sulla carta ben più radicali, e Nathanyau si ritrova ancora una volta di fronte ad un bivio del quale avrebbe fatto volentieri a meno: da un lato avviare un compromesso con quello che ancora adesso è considerato da tutti un pericoloso gruppo terroristico, o come alternativa inserire nella trattativa Abu Mazen, considerato fino ad un paio di mesi fa debole, inaffidabile ed inacettabile come possibile controparte di una qualsiasi trattativa di pace.
Il miglior metro di giudizio esistente per poter capire la solitudine nella quale si trova Bibi è l’esiguo se non nullo numero di deputati e ministri che sostengano pubblicamente le scelte politiche e militari dell’operazione “Protective Edge”. Il governo è ormai diventato un coro stonato dove le voci del dissenso si alzano forti e potenti fino a sconvolgere il testo e la musica originali. Lieberman, l’attuale ministro degli esteri, non perde occasione per ripetere a destra e a manca di come si sia persa un’ottima occasione di far fuori Hamas e di ripulire la striscia di Gaza, cosa che aggiunge “andrà fatta in ogni caso”.
Ma le critiche nei confronti di Nethanyau arrivano da entrambi i lati dello schieramento governativo, anche i ministri molto più moderati appartenenti ai partiti del centro quali Lapid e Livni non sono in grado di capire quale sia la linea politica del premier e attendono sfiduciati e passivi i futuri sviluppi. Paradossalmente l’opposizione parlamentare dei partiti religiosi e della sinistra sono per il momento quelli che hanno dato meno grattacapi dimostrando una maturità politica infinitamente maggiore di quella dei membri del likud, il partito di Bibi.
Nei vari periodi nei quali era il leader dell’opposizione Nethanyau viveva di momenti come quello attuale, momenti nei quali poteva sfoggiare il meglio del suo repertorio, spiegare perchè era sbagliato ed immorale patteggiare coi terroristi, accusare il governo di aver usato una linea troppo morbida e di “aver impedito a Zahal di vincere la guerra”, uno degli slogan da sempre in voga in momenti come questo. Ma come ebbe a dire una volta Arik Sharon “ciò che si vede da vicino non è quello che si vede da lontano”, frase che sottolinei ancora una volta di più come le responsabilità della guida del paese non siano così semplici e lineari come si vorrebbe credere.
L’estate volge al termine, e l’agenda di Nethanyau non fa che infittirsi di appuntamenti e decisioni improcrastinabili: l’accordo con Hamas, il peggioramento dei rapporti con Obama, una coalizione di governo al limite dello sbando, i rapporti interni coi falchi del likud pronti ad affrontarlo in campo aperto e quali posizioni prendere sui legami sempre più stretti fra Abu Mazen e Hamas. Se almeno avesse al suo fianco una consorte solidale e comprensiva in grado di appoggiarlo nei momenti più duri, ma Sara non mi pare proprio il tipo.
E qui si nasconde la solitudine peggiore, quella dei numeri primi…
L’ha ribloggato su Diemmee ha commentato:
“ciò che si vede da vicino non è quello che si vede da lontano”
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Non vivo in Israele e quindi non sono in grado di valutare gli avvenimenti della politica interna ed i rapporti tra i vari partiti e le varie anime del Paese. Ad un osservatore esterno e disinteressato – quale sono io – che valuta in base alle principali decisioni di politica estera prese negli ultimi anni nei confronti dei palestinesi, riesce però molto difficile condividere il pensiero sulla solitudine di Nethanyau in quanto ritengo che dietro il Primo Ministro non faccia altro che rappresentare la maggioranza del Paese che ha affossato gli Accordi di Oslo e non ha alcuna intenzione di permettere la nascita di uno Stato Palestinese, con o senza Hamas. A questo riguardo i nemici non si possono scegliere e quindi, se si vuol fare l’accordo, si deve fare con chi c’è dall’altra parte. Qualche settimana fa Hamas e Abu Manzen avevano annunciato di voler fare un Governo comune e Kerry sembrava aver trovato una base valida di trattative. Subito dopo si è scatenata l’Apocalisse. A questo riguardo capisco che Nethanyau si possa sentire solo ma poichè – non si può “ripulire” Gaza in quanto Hamas gode di oltre il 90% dei consensi, specialmente dopo gli ultimi massacri
– nessuno al Mondo accetterebbe la deportazione degli Arabo-Israeliani
– è improponibile trasferire in Giordania i palestinesi che vivono in Cisgiordania (come proponeva l’ebrea “di sinistra”Tullia Zevi negli anni ’80).
Ma questo è quello che vorrebbe fare la sua maggioranza e quindi la sua solitudine è quella di tutti i capi che devono prendere delle decisioni difficili e piene di conseguenze ma in questo caso è una solitudine maggiore perchè si tratta chiaramente di una “mission impossible” e più passano gli anni e peggio sarà (con il declino degli USA e la crescita delle altre potenze mondiali come Cina, Russia, Indonesia, Brasile, etc., meno influenzabili dall’opinione pubblica ebraica). La sua solitudine non è quindi nient’altro che la consapevolezza di trovarsi in un vicolo cieco.
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In aggiunta, e in linea con le mie considerazioni del 16/8, segnalo l’interessante articolo di Moni Ovadia sul Fatto Quotidiano di oggi (29/8/2014)
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